Uso e abuso degli psicofarmaci


In generale, per quanto riguarda gli psicofarmaci, si può dire che allo stato attuale delle conoscenze i reali meccanismi fisiologici sottostanti la maggior parte dei disturbi mentali, come la Depressione, la Schizofrenia e l'Ansia sono conosciuti solo in minima parte: probabilmente ciò è dovuto al fatto che tutti questi disturbi coinvolgono reti neuronali e meccanismi molto complessi che regolano sia le funzioni filogeneticamente più antiche (come quelle che mediano la risposta di paura, dello stress, il vissuto del piacere e del dolore) che quelle più elevate e recenti come il pensiero e gli affetti.

Ad oggi è noto soltanto che alcune classi di farmaci hanno un’efficacia non tanto nel rimuovere i fattori causali della depressione quanto nel ridurre temporaneamente i sintomi di questo disturbo.

Gli psicofarmaci dunque non agiscono sui meccanismi neurofisologici legati alle cause (situazionali, psicologiche, relazionali, affettive, genetiche ecc.) che hanno prodotto i sintomi del disturbo, ma solo sui meccanismi neurofisiologi che sottendono i sintomi.

Ad esempio un antidepressivo attenua momentaneamente il sintomo della depressione ma non le sue cause (non la cura).

In ragione di questi fatti scientificamente dimostrati è necessario adottare un criterio di estrema cautela ogni qualvolta si decida di somministrare o assumere psicofarmaci in quanto essi, oltre a determinare l’effetto desiderato, possono produrre effetti indesiderati psicologici e fisiologici anche gravi.

La probabilità che ciò si verifichi aumenta all’aumentare del periodo di assunzione e del dosaggio. Fatta eccezione per i casi di disturbi gravi o molto gravi, nella stragrande maggioranza dei casi questi farmaci devono essere assunti solo se strettamente necessario e comunque per periodi brevi (mesi). Questo è dovuto al fatto che, come già detto, gli psicofarmaci agiscono solo sui sintomi, ma non sulle cause: questo è il motivo principale per cui milioni di individui nel mondo, anziché agire sulle cause, finiscono con l’assumere questi farmaci  in maniera inadeguatamente prolungata, sino alla cronicizzazione.

Tale fenomeno, estremamente diffuso, è causato da un semplice ma micidiale meccanismo legato all’idea “fantascientifica” che una "pillola" sia in grado di risolvere immediatamente e definitivamente un problema le cui cause sono radicate nella complessità dei meccanismi psicobiologici umani.

Se la guarigione, intesa come la risoluzione delle cause del disturbo, può essere valida per alcune patologie mediche e per alcuni farmaci, la psicofarmacologia attuale esclude tale ipotesi per le patologie psichiche. Per tutte queste ragioni, nella scelta di iniziare o meno una terapia farmacologica, si rende necessario, oltre che una valutazione relativa alla presenza/intensità dei sintomi, anche una valutazione delle possibili cause dei sintomi e l'attitudine individuale (in buona parte genetica) a sviluppare dipendenze.

Certamente la genetica svolge un ruolo importante nella patogenesi dei disturbi dell'umore; tuttavia, nella specie umana, la componente genetica dei disturbi che riguardano in così grande misura la sfera psicologica (ad oggi la funzione nervosa più elevata e complessa prodotta dalla natura terrestre) deve essere intesa in termini di predisposizione al manifestarsi di quegli aggregati tipici di sintomi ai quali noi abbiamo dato diversi nomi: ansia, depressione, mania, ecc.

L'instaurarsi di uno stato depressivo e il suo livello di gravità dipendono dunque da due fattori principali che possono esprimersi in varia misura nei diversi individui o anche nello stesso individuo ma in periodi di vita differenti: la genetica e l'ambiente (persone, situazioni, cultura).

Ad esempio un individuo debolmente predisposto alla depressione può trovarsi in un ambiente fortemente sfavorevole, in grado di determinare uno stato depressivo grave tanto quanto quello di un individuo con una predisposizione genetica più forte ma un ambiente meno sfavorevole. Il risultato finale dunque è una questione di misure, un mix individuale.

In tutti i casi dunque la componente ambientale può fare la differenza; è per questa ragione che l'interventi di tipo psicologico costituisce ad oggi il mezzo più potente in grado di agire sulle cause (ambientali) che facilitano l'espressione della predisposizione genetica (da lieve a molto forte) alla depressione.

Si può concludere quindi che la strategia di intervento più efficace sia primariamente di tipo psicologico e secondariamente di tipo farmacologico, limitando l’uso dei farmaci solo ai casi in cui realmente necessari.

Purtroppo oggi, come dimostrato da numerosi studi a livello internazionale, le prescrizioni di psicofarmaci (e quindi la loro assunzione) è in progressivo e inarrestabile aumento tanto negli adulti, quanto, cosa ancor più grave, nei bambini.

Riguardo a questi ultimi ad esempio, da uno studio di Cooper et al. (2006) è emerso che in 5.762.193 visite effettuate su bambini tra il 1995 e il 2002, sono stati prescritti anche gli antipsicotici. Quasi un terzo di tali prescrizioni è stato effettuato da non professionisti della salute mentale (ad esempio medici generici). Il 53% delle prescrizioni erano per disturbi comportamentali o affettivi, condizioni per le quali gli antipsicotici non sono ancora studiati approfonditamente nei bambini.

Teniamo comunque a precisare che riteniamo sterile ed inutile l’assunzione di posizioni radicali a favore o a sfavore dell’uso degli psicofarmaci poiché la questione si risolve nel momento in cui tali farmaci vengano utilizzati come strumenti di supporto temporaneo ai veri e propri interventi di tipo psicologico, come il Counseling Psicologico e il Sostegno Psicologico, sempre con le necessarie cautele e il buonsenso, anche e soprattutto da parte del paziente.